Alessandro Berteotti

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lunedì 25 agosto 2008

Dalla poesia, al ricordo, alla riflessione

Martin Niemöller scriveva:

Prima di tutto vennero a prendere gli zingari
e fui contento, perché rubacchiavano.

Poi vennero a prendere gli ebrei
e stetti zitto, perché mi stavano antipatici.

Poi vennero a prendere gli omosessuali,
e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi.

Poi vennero a prendere i comunisti,
ed io non dissi niente, perché non ero comunista.

Un giorno vennero a prendere me,
e non c’era rimasto nessuno a protestare.

Capita spesso di leggere questa poesia, attribuita da molti a Bertold Brecht ma in realtà di Martin Niemöller, morto nel 1984. Un personaggio discusso e non privo di contraddizioni: nasce in Germania, a Lippstadt, il 14 gennaio 1892. Il padre è un pastore luterano. Intraprende gli studi di teologia evangelica a Münster. E’ convinto che solo riattualizzando il messaggio cristiano originario si possa mettere ordine a una società instabile e scossa dalle fondamenta come quella tedesca all’indomani della Prima guerra mondiale. Però a partire dal 1924 vota il partito nazionalsocialista di Hitler. Verso la fine della Repubblica di Weimar, nel 1931, lo ritroviamo pastore della comunità evangelica di Berlino-Dahlem. Intorno infuria la crisi economica - sono gli effetti del ‘29 - la disoccupazione raggiunge livelli mai visti. Quando Hitler sale al potere, Niemöller è entusiasta del nuovo Stato del Führer. Ma l’entusiasmo dura poco. Nella chiesa evangelica e tra i cristiani tedeschi inizia un dibattito tormentato. I nazisti fomentano una scissione e favoriscono la nascita di una nuova organizzazione della chiesa protestante tedesca, i Deutschen Christen , su una linea di totale acquiescenza alla politica del regime. Sotto questa sigla una parte del protestantesimo tedesco aderisce alla filosofia razziale e antisemita. Arrivano le leggi ariane e, nelle comunità evangeliche, si comincia a parlare di affratellamento fra i pastori che si oppongono all’hitlerismo. Nel settembre del 1933 i non-ariani vengono cacciati dagli uffici ecclesiastici. Niemöller lancia l’appello a formare una lega dei pastori protestanti su base nazionale. Un terzo dei pastori aderisce.
Niemöller è, in buona sostanza, un conservatore nazionalista, non troppo distante dal nazionalsocialismo, ma la battaglia nell’universo del protestantesimo è sufficiente a metterlo in rotta di collisione col regime nazista e a farlo scivolare nell’illegalità. A nulla vale l’autodifesa di fronte a Hitler che incontra nel gennaio del ‘34. Vorrebbe tenere le questioni religiose fuori dalla contesa politica. L’anno successivo non si trattiene dal criticare Alfred Rosenberg, nientemeno che uno dei massimi ideologi nazisti. Lo arrestano una prima volta, lo liberano e infine lo arrestano di nuovo. Viene processato e mandato nel campo di concentramento di Sachsenhausen, alle porte di Berlino, considerato il lager dei “prigionieri personali” di Hitler. Nel 1938 la sua condanna a morte viene sventata solo grazie a una campagna d’informazione organizzata da un vescovo britannico, George Kennedy Allen Bell. Ancora un anno e scoppia la guerra. Niemöller fa appello al suo passato di ufficiale della marina, un corpo che mantiene uno spirito prussiano ligio alle tradizioni - una sorta di zona franca nelle forze armate. Viene trasferito a Dachau. Sarà liberato nel 1945 dall’esercito americano.
La sua biografia non si arresta qui. Nel dopoguerra contrasta la restaurazione clericale nella parte occidentale della Germania. Si apre un nuovo capitolo che lo vedrà impegnato in tutte le battaglie progressiste e democratiche nella nuova Bundesrepublik di Konrad Adenauer, prima fra tutte quella contro il riarmo e la bomba atomica. Da autorità religiosa del protestantesimo sarà in prima linea per molti anni a venire. Contro l’aggressione americana in Vietnam. E, ancora, nei primi anni 80, sarà lì, a firmare appelli contro le testate nucleari degli Usa in Europa.

Aggiungo una bella riflessione di Quasimodo:

«Io non credo alla poesia come “consolazione”, ma come moto a operare in una certa direzione in seno alla vita, cioè “dentro” l’uomo. Il poeta non può consolare nessuno, non può “abituare” l’uomo all’idea della morte non può diminuire la sua sofferenza fisica, non può promettere un eden, né un inferno più mite… Oggi poi, dopo due guerre nelle quali l’”eroe” è diventato un numero sterminato di morti, l’impegno del poeta è ancora più grave, perché deve “rifare” l’uomo, quest’uomo disperso sulla terra, del quale conosce i più oscuri pensieri, quest’uomo che giustifica il male come una necessità, un bisogno al quale non ci si può sottrarre… Rifare l’uomo, è questo il problema capitale. Per quelli che credono alla poesia come a un gioco letterario, che considerano ancora il poeta un estraneo alla vita, uno che sale di notte le scalette della sua torre per speculare il cosmo, diciamo che il tempo delle speculazioni è finito. Rifare l’uomo, questo è l’impegno.»
Salvatore Quasimodo, La Fiera Letteraria, giugno 1947.

Ogni tanto è bello cercare di ricordare quali valori ci hanno lasciato coloro che ci hanno preceduti.

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