Alessandro Berteotti

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martedì 26 agosto 2008

Costruire il nemico, un saggio di Umberto Eco

Il titolo era troppo invitante per ignorare la provocazione, così l'ho letto.
I fatti di questi giorni ci presentano una società in fermento, in attesa forse di forti cambiamenti. Dalla Georgia giungono messaggi di confronto tra Russia e blocco atlantico, dall'India non si tollera l'intromissione cristiana nella società indiana divisa in caste, che ne minaccia la millenaria struttura. L'ufficializzazione della candidatura alla presidenza degli Stati Uniti di Barak Obama risveglia la volontà di una parte di quella complessa società di non voler accettare la "prima volta" di un nero ed il cambio sempre più probabile della guida da Repubblicani a Democratici, che potrà aprire nuove prospettive per il prossimo decennio del Mondo.
Anche noi in Italia abbiamo il nostro bel daffare: negli ultimi quindici anni non si è fatto altro che costruire rapporti improntati alla violenta denigrazione dell'avversario, senza un atteggiamento di confronto serio e costruttivo. Si è cercata la rissa per confondere, per non far capire, per evitare il ricordo ed il ragionamento sui fatti.
Il testo "Costruire il nemico" di Umberto Eco ha in se molti spunti di riflessione, e per questo ve lo propongo nella sua versione integrale. Occorre però leggerlo come si deve, per cui non scorretelo velocemente alla ricerca della frase ad effetto, ma se non avete tempo, stampatelo e leggetelo poi con calma. Dobbiamo tornare ad usare del nostro tempo e della nostra testa, e ci occorre anche qualche guida che ci consenta di entrare meglio nei contesti che, finora, abbiamo troppo a lungo accettato senza una vera critica.
Vi propongo, come estratto, solo le prime righe del testo, riportate qui sotto. Buona lettura.
"Anni fa a New York sono capitato con un tassista dal nome di difficile decifrazione, e mi ha chiarito che era pakistano. Mi ha chiesto da dove venivo, gli ho detto dall'Italia, mi ha chiesto quanti siamo ed è stato colpito che fossimo così pochi e che la nostra lingua non fosse l'inglese.
Infine mi ha chiesto quali sono i nostri nemici. Al mio "prego?" ha chiarito pazientemente che voleva sapere con quali popoli fossimo da secoli in guerra per rivendicazioni territoriali, odi etnici, continue violazioni di confine, e così via. Gli ho detto che non siamo in guerra con nessuno.
Pazientemente mi ha spiegato che voleva sapere quali sono i nostri avversari storici, quelli che loro ammazzano noi e noi ammazziamo loro. Gli ho ripetuto che non ne abbiamo, che l'ultima guerra l'abbiamo fatta cinquanta e passa anni fa, e tra l'altro iniziandola con un nemico e finendola con un altro. Non era soddisfatto. Come è possibile che ci sia un popolo che non ha nemici? Sono sceso lasciandogli due dollari di mancia per compensarlo del nostro indolente pacifismo, poi mi è venuto in mente che cosa avrei dovuto rispondergli, e cioè che non è vero che gli italiani non hanno nemici.
Non hanno nemici esterni, e in ogni caso non sono mai in grado di mettersi d'accordo per stabilire quali siano, perché sono continuamente in guerra tra di loro, Pisa contro Livorno, Guelfi contro Ghibellini, nordisti contro sudisti, fascisti contro partigiani, mafia contro stato, governo contro magistratura – e peccato che all'epoca non ci fosse ancora stata la caduta del secondo governo Prodi altrimenti avrei potuto spiegargli meglio cosa significa perdere una guerra per colpa del fuoco amico.
Però, riflettendo meglio su quell'episodio, mi sono convinto che una delle disgrazie del nostro
paese, negli ultimi sessant'anni, è stata proprio di non avere avuto veri nemici."

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