Alessandro Berteotti

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lunedì 7 giugno 2010

La sindrome di Enrico VII

Esiste un problema nella nostra società. Un problema atavico, forse connaturato nel nostro essere italiani, un po' creduloni, ma anche molto conservatori.
Non riusciamo a staccarci dalle abitudini, dai modi di essere e di vedere le cose, di pensare e di agire. Se iniziamo a mangiare un certo tipo di pasta, è difficile cambiare, così come per le auto.
Quanti di noi vanno in pizzeria convinti che "questa sera prendo un gusto speciale" e poi finisce con la più classica delle Quattro Stagioni?
Così anche nello sport, una volta che prendiamo a cuore una squadra inizia il tifo, e di conseguenza perdiamo obiettività e l'unica cosa che conta è che la nostra squadra vinca. Che lo meriti oppure no.
E dallo sport alla politica il passo è breve. Gli italiani si sono legati da sempre ad un partito, fin dall'inizio del secolo scorso: dapprima fu il fascismo, poi la Democrazia Cristiana e infine Forza Italia e il Popolo della Libertà. C'è chi trova in questo percorso perfino un filo comune, una sorta di continuità storica dovuta al fatto che alla fine della seconda guerra mondiale, la maggior parte di coloro che entrarono nella DC erano ex-fascisti, di nome o di fatto. Certo è che almeno per chi visse gli anni Trenta, essere fascista era un dato di fatto e il dissenso veniva duramente represso. Per cui, anche se non piaceva, anche solo per quieto vivere, ci si lasciava andare tra le braccia del Partito Unico.
Il passaggio più recente, dalla agonizzante DC a Forza Italia, fu uno dei capolavori politici del secolo scorso, che ha originato nel contempo uno strano connubio tra "il partito di plastica", come fu chiamato in origine Forza Italia, e l'Uomo Forte, Berlusconi, che negli atteggiamenti e nella sostanza ricorda molto colui che fu il capo del fascismo, Benito Mussolini.
Con lui è nato il leaderismo, il partito che porta il nome del suo esponente di spicco, il riconoscersi in una persona e non più in un ideale. Certo, dopo la caduta del Muro di Berlino e dell'ideale comunista, è stato oggettivamente più semplice portare avanti in tutte le sedi istituzionali e democratiche un pensiero revisionista e conservatore, ma addobbato in modo da sembrare riformista.
Di fatto, guardando alla realtà odierna, abbiamo che quasi tutti i partiti hanno scimmiottato questo modello, riportando nel logo anche di importanti partiti nazionali i nomi dei loro leader, come Casini per l'UDC, Fini con l'ultimo atto di AN o Di Pietro e la sua Italia dei Valori.
L'unico partito che fatica a trovare un leader pare proprio il PD, e questo suona quasi come una debolezza che lo condanna ad un incerto procedere nella politica nazionale.
In realtà questo potrebbe essere un significativo vantaggio, perchè un grande partito popolare deve essere in grado di esprimere anche diverse opinioni e tendenze, molti leader locali e nazionali, ma poi trovare un consistente punto di sintesi e di equilibrio. Nel PD, invece, tutto questo diventa occasione di scontro non mediato perchè molte delle "camere di compensazione" che dovrebbero contribuire a questo processo di sintesi, sono in realtà patrimonio di coloro che senza averla, ambiscono alla poltrona di segretario, ed il cui unico interesse è la gestione della surroga del potere. Non potendolo gestire in via diretta, impongono, frenano, omettono, sabotano.
Uomini e donne che sono passati attraverso almeno tre o quattro esperienze politiche diverse, cambiando nome di partito ma non ideale politico, certo; avendo però anche radici in antichi partiti che fino a 15/20 anni fa si combattevano duramente su fronti opposti e che solo l'arroganza della politica attuale li ha fatti incontrare, senza arrivare mai (purtroppo) a creare un nuovo e più ampio movimento di popolo, se non con il primo Ulivo.
La gente per credere definitivamente in questo partito nuovo vuole vedere un netto taglio col passato. Vuole vedere un unico intento politico, che non nasce solo dalla storia, che comunque non può essere rinnegata, ma che pensi nel presente con lo sguardo al futuro, con politici nuovi, con facce nuove, con giovani che progettino il loro futuro e non solo vecchi politici che pensano a mantenere benefici generazionali.
La società intera ha bisogno di una scossa profonda, perchè ormai cambiare non è solo una necessità, ma una priorità. Se vogliamo dare un futuro ai nostri figli dobbiamo aiutarli a diventare indipendenti, dobbiamo aver fiducia in loro, dobbiamo dare loro spazio e metterci con umiltà al loro servizio. Invece siamo solo in grado di chiudere loro le porte del lavoro, aumentando l'età pensionabile (che riduce ulterioriormente il numero di posti di lavoro a disposizione) o allungando le durate dei debiti pubblici, con prodotti come i derivati e la ricontrattazione dei mutui, così che i nostri figli fin d'ora saranno chiamati a pagare i debiti da noi contratti, grazie alle nostre incapacità.
I politici trentenni, quarantenni e soprattutto cinquantenni di oggi rischiano di fare come Edoardo VII, che divenne Re d'Inghilterra in età avanzata, dopo il lungo regno della Regina Vittoria: avviarsi verso una transizione rapida, per quanto illuminata.

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